“Avevo un sogno, quello americano, ma era sbagliato o meglio ho fallito e allora tanto vale morire.” Questa sembra l’amara conclusione della commedia drammatica di Artur Miller, Morte di un commesso viaggiatore, messa in scena dal Teatro Stabile di Bolzano e dal teatro Stabile del Veneto con Alessandro Haber per la regia di Leo Muscato. Ma c’è molto di più.
La storia in sé è superata. Siamo nel 1949. Il commesso viaggiatore è una professione più o meno estinta per come la si faceva una volta. Il sogno americano non c’è più. Il mondo è totalmente cambiato da allora, in particolare il mondo del lavoro.
Eppure c’è qualcosa che rende questa opera maledettamente attuale. Il desiderio di un padre di vedere il successo dei propri figli. I figli debosciati incapaci di costruirsi una vita autonoma. L’immagine della donna come mero accessorio della vita famigliare oppure relegata al solo ruolo di oggetto sessuale. L’incapacità di affrontare i fallimenti. L’importanza dell’apparire piuttosto che essere. Quello che però traspare in modo più drammatico è il paradosso vita lavoro.
Vivere per lavorare o lavorare per vivere?
Domanda che oggi è sempre più attuale. Siamo tutti vittime di una frenesia verso il raggiungimento di un benessere economico piuttosto che di un benessere dell’anima.
Ma non solo, più che piacere a noi stessi cerchiamo di piacere agli altri, le apparenze appunto.
In fondo in 70 anni possono cambiare gli scenari ma non la natura umana. Per questo il lavoro di Miller è attuale. Più che mai è un ritratto dell’uomo nella società post bellica. Ritratto che ancora oggi è in via di definizione.
Sono numerosi le riflessioni personali che vengono innescate dall’opera di Miller e solo per questo vale la pena di vedere questo spettacolo teatrale.
Il regista Leo Muscato riesce abilmente a rendere leggere le quasi tre ore di spettacolo. All’inizio ci vuole un po’ a capire la tecnica dei flashback. La sceneggiatura dinamica, fatta di pareti semi virtuali e mobili, le luci modulate in maniera eccellente, rendono quasi magico il gioco dei tuffi nel passato. Passato e presente si fondono con dissolvenze visive giocate con sagace maestria.
Poi ci sono gli attori, Alessandro Haber Willy Loman e Alvia Reale la fanno da padroni e i due figli Biff e Happy interpretati da Michele Venitucci e Alberto Onofrietti non sono da meno. A loro il difficile compito di passare da adolescente spensierato ad adulto fallito nel battito di un cambio luci. Lo spettacolo anche solo da un punto di vista tecnico merita un dieci e lode. Potrebbe essere una lezione su come effettuare dei flashback come se fossero dei piani sequenza cinematografici.
Rimane comunque una storia triste, che si sviluppa e finisce male. C’è un po’ di Willy Loman in tutti noi e se si prova una sorta di fastidio nei suoi confronti forse è proprio perché ci si identifica spesso nei suoi atteggiamenti. La figura del fratello morto che appare spesso è un richiamo a tutte quelle “sliding doors” in cui ci troviamo spesso nel corso della vita. Ma è anche un monito a smettere di guardare indietro e rimpiangere il famoso latte versato.
Concludo con una nota curiosa. Lo spettacolo è andato in scena (lo è ancora per chi legge tra il 27 febbraio e il 1 marzo 2020) in pieno caos Coronavirus. Teatro pieno (o vuoto) a metà. Rimarrà negli annali la campagna del teatro Stabile di Bolzano “last virus“ con biglietto offerto a 1 euro. Forse per rimarcare che dato che l’ingoranza, essendo gratuita, si diffonde viralmente, magari anche un po’ di cultura “scontata” può essere d’aiuto.