1741 – 2019 duecentosettantottoanni e nulla è cambiato!
Questo il primo pensiero dopo aver visto “La Bancarotta” di Vitaliano Trevisan con Natalino Balasso tratta dall’omonima opera di Carlo Goldoni del 1741 appunto.
La scenografia è la prima cosa che ti colpisce. Il buio, interrotto da un pezzo di edificio diroccato, due finestre, un portone e una foto d’epoca di una donna. Tutt’intorno solo terra. I personaggi sbucano dalle finestre, dal pezzo di cornicione mancante, dal portone che alla fine crolla. Quei ruderi diventano la metafora delle anime turbate dei protagonisti. Non vi è eleganza in loro, ognuno è la caricatura stereotipata di un personaggio fastidioso. Difficile prendere le parti di qualcuno, difficile immedesimarsi con quei personaggi che risultano tuttavia familiari e dopo poche battute sai già come si comporteranno.
Il tempo inganna. Abiti di varie epoche, la valuta è il Ducato ma uno dei protagonisti si perde guardando video sul suo smartphone, per tutto il tempo non riesci a capire in che epoca collocare la scena. Mano a mano che le situazioni si delineano diventa però chiaro che è una storia senza tempo. C’è qualcosa insita nell’uomo che col tempo cambia poco, la bramosia del denaro e del potere. Questo sembra dirci l’autore pur lasciando una piccola speranza nella fuga d’amore del figlio cocainomane e della prostituta per volere di mamma. Basterà la lettura accorata di Shakespeare a redimerli? Certamente no. La loro fuga avviene di fretta, passa quasi inosservata, abbandonano la barca/casa che affonda ma per andare ad affondare da qualche altra parte. In fondo il figlio per prima cosa ha cambiato la serratura dell’ufficio del padre, segno che comunque non disprezza il denaro. Non c’è speranza per questi personaggi che a fatica si reggono sulla facciata obliqua del rudere. Non vi è un solido terreno sotto i loro piedi.
Vi è del grottesco, del cinismo, della rassegnazione. Non vi sono eroi in questa Bancarotta, non rimangono neppure speranze. La rassegnazione è esplicita nella madre spacciatrice, falsa invalida nonché protettrice della propria figlia. Lei ha capito che il mondo va così, perchè remare contro, meglio sfruttare la situazione.
Ammetto che finito lo spettacolo ci sono rimasto male, forse perché per 90 minuti ho atteso quella “liberazione dal male” che non è arrivata.
Natalino Balasso nei panni di Pantalone è a dir poco superbo ma non di meno Fulvio Falzarano e tutto il resto del cast.
L’intimità della messa in scena del Teatro Studio regala a questa riuscitissima e “piacevolmente fastidiosa” produzione del Teatro Stabile di Bolzano una cornice ancora più drammatica.
Saldi ai propositi, che no i rompemo. Ghe n’ho fatto anca mi, e pur troppo, con mio dolor e con mia vergogna, appena fatti ho mancà. Questo vien dal modo de farli, o dalla causa che li fa far. Co se dise vôi far del ben, in tempo che no se pol far del mal, se fa presto a tornar a far mal, co no se xe più in necessità de far ben. Un marcante che ha falio per poco giudizio, fina che el xe in desgrazia, el pensa a remetterse; co l’è remesso, el cerca la strada de tornar a falir. Cossa vuol dir sto desordene? Vuol dir che i omeni no cognosse el ben, se no quando che i se trova in miseria; e che per umiliar i superbi xe necessario che la providenza del ciel li avvilissa, li confonda, e che succeda, a chi no gh’ha cervello, quel che me xe successo anca a mi.
Non lascia una speranza neppure Carlo Goldoni nelle battute finali della sua opera. …si fa presto a tornare a fare del male quando non c’è più necessità di fare del bene…